Malinconica Maestà: un racconto

La mattina dopo ha aperto gli occhi e la prima cosa che ha pensato è stata: “questo è forse il mio destino? Oppure sono io a scegliere inconsciamente di ripetere sempre lo stesso schema?”
Poco dopo era in piedi, a fissare i tetti delle case di fronte, mentre giocava con il sorso d’acqua tenendolo in bocca.
“Ma poi, qual è la differenza fra il destino e le cose della vita che si ripetono uguali, tantissime volte?”
Un gabbiano si era posato sul davanzale del terrazzo vicino e si erano guardati intensamente, finché non era volato via.
“Perché mi faccio queste domande di prima mattina, invece di piangere come una persona normale…”
L’occhio poi le era caduto sui regali che aveva scartato prima del disastro: “a chi potrebbero piacere?”, perché lei aveva questa teoria che se uno che dice di amarti ti fa dei regali e poi scopri che ti tradisce, per esorcizzare il male devi donare i suoi regali a qualcuno che invece ti ama per davvero (lo vedete? era successo talmente tante volte che aveva persino avuto il tempo di elaborare un protocollo specifico).


La moka era un gesto di cura imprescindibile anche in quelle condizioni. Dopo averla messa sul fuoco, si era seduta sul divano, da dove poteva osservare il riflesso della pianta di spatifillo nel vetro della porta-finestra. “Ma è morta?” si chiese, continuando a osservarla nel riflesso e accorgendosi che non c’era più neanche un fiore e le foglie pendevano verso il pavimento. Poi incrociò di sguincio il suo riflesso e iniziò a confrontarlo ossessivamente con quello dello spatifillo.
“Forse è come quella storia dei cani che somigliano ai padroni”, si disse, irritandosi immediatamente.
“Perché non la smetto di fare la stupida e chiamo qualcuno, una persona amica, prima che mi sgridi dicendomi che quando sto male devo chiamarla invece di chiudermi?”
Caffè.
“Se chiamassi qualcuno, cosa racconterei esattamente?”
La parte in cui lui aveva iniziato a farfugliare scemenze l’aveva saltata anche in tempo reale. Quando impari a setacciare la verità separandola dalle giustificazioni nevrotiche, ti risparmi di sentire tutte quelle frasi dette con leggerezza che feriscono pesantemente. Se evitare di trovarsi costantemente di fronte al feretro dei suoi amori non era possibile, aveva quantomeno trovato il modo di evitare di sperperare energie per trasportare una bara più pesante del morto che c’era dentro.
Bisogna avere stile anche nei momenti peggiori…”
Dice così una delle sue canzoni preferite, anche se non era completamente sicura che avere stile significasse simulare un sofisticato contegno e intrattenersi con un vortice di pensieri per non piangere con la faccia in un cuscino del divano.


“Non ci parleremo mai più.”
Sapeva riconoscere se a parlare era la coscienza profonda di una persona, quella parte che capisce le cose sempre con un po’ di anticipo rispetto a noi. E quando era quella, che parlava, lei sapeva che non ci si poteva coprire le orecchie. Bisognava accettare quello che lei diceva. Chinare il capo e non portare rancore. Lasciare andare senza avere paura. Ecco, questo invece poteva chiamarlo senza dubbio “avere stile”.
Doveva, insomma, cercare di non precipitare gli eventi: espressione particolarmente cara alla madre e che, in effetti, lei considerava il tentativo di impartirle un’educazione più riuscito di tutta la sua carriera di genitore. Quell’espressione funzionava sempre, quando aveva bisogno di calmarsi. Sua madre l’aveva usata per la prima volta quando l’aveva trovata a muggire in cucina con una manciata di strappi di carta assorbente in una mano, al buio, perché aveva scoperto che il suo primo ragazzo era il ragazzo di un numero inaspettato di sue compagne di scuola. Poi giurerebbe di non averla più ascoltata per anni. Infine, da giovane adulta, in quei rari momenti in cui era talmente disperata da telefonare alla madre pur di sfogarsi, era diventato un monito immancabile.
Deve pensare che la figlia sia una precipitatrice di eventi professionista.


Non precipitare gli eventi, dunque, come prima regola. Per esempio, evitando di convincersi che sarebbe morta restando per sempre raggiunta da nessuno e idealizzata da tutti, giusto il tempo di rovistare nel suo personale cesto di caramelle di cortesia. Le caramelle di cortesia era come immaginava la caratteristica che tutti le lodavano, cioè quella di saper confortare il prossimo offrendo le parole con le quali si affannava a confortare sé stessa. Questa specie di frasario di emergenza era ogni volta la sua ultima speranza prima di sentire il dottore parlare di depressione maggiore, perciò era stato perfezionato al massimo negli anni (trentadue) e gli altri ne rimanevano, a ragione, incantati. Non era scontato tenere a mente che l’incanto non è un sentimento.
Tenerlo a mente però la riavvicinava pericolosamente alla depressione maggiore, perciò aveva deciso di fare un po’ e un po’: un po’ sapeva, un po’ dimenticava.

Una volta si era convinta ad andare a una festa di compleanno, anche se aveva da poco troncato la relazione con l’uomo con cui conviveva e che aveva iniziato a dare spettacolo su tutti i social network esistenti nel tentativo di suscitare la reazione di lei, che era molto riservata e detestava vedere resa pubblica la sua vita personale. La festeggiata aveva insistito coi soliti discorsi sull’importanza di non chiudersi in casa, su quanto ci tenesse alla sua presenza e sugli amici che doveva assolutamente presentarle perché “non so se a te piaceranno ma tu a loro piacerai di sicuro”. Commovente la stima di cui era circondata, nonostante fosse evidente che, esclusa quella volta in cui aveva preso l’iniziativa di buttare il mascara Dior di sua sorella nella spazzatura perché “marrone ha senso solo se sei di Reykjavik”, non ne aveva più azzeccata una nella vita.
Una volta arrivata a casa della sua amica, lei era andata ad accoglierla e, dopo averle preso il cappotto per portarlo nella stanza adibita a guardaroba, le aveva detto: “Sono proprio contenta che sei venuta. Te la ricordi Lavinia, mia cugina? Sta passando un periodo un po’ così, sai. Colleziona un caso umano dietro l’altro e si sta convincendo di essere una fallita. Non è che magari ci puoi parlare un po’ tu? Eh?, che tu sei brava. Senza farti accorgere che te l’ho detto, mi raccomando”.


Lavinia fumava seduta in giardino ed era bastato chiederle se avesse da accendere perché si aprisse in tutto il suo sconforto. L’ultima storia l’aveva avuta con un ragazzo un po’ più giovane, che aveva trovato lavoro a Lisbona e poco dopo essersi trasferito l’aveva lasciata. Le aveva confessato che non aveva voglia di uscire di casa e che era lì solo per fare contenta sua cugina, che non si sentiva bene neanche con se stessa e, nel dirlo, si era chiusa nel cardigan nero che la copriva tutta come un saio. Mentre parlavano, pensò che Lavinia si era presentata alla festa vestita come sua nonna per lo stesso motivo per cui lei si era messa una sottoveste bianca striminzita e cortissima, che ondeggiava seguendo ogni movimento delle natiche e lasciava intravedere i capezzoli induriti dal freddo: per dimostrare che tanto era tutto inutile. Nessuno le avrebbe mai viste davvero, allora tanto valeva sbrigarsi e smascherarli tutti: tu no, tu neanche, nemmeno tu.
“Sono invisibile”.


Lavinia scuoteva la testa con un sorriso di circostanza, aveva due occhi scuri a mandorla che le brillavano fortissimo e lei pensò che doveva essere una ragazza che aveva pianto molto negli ultimi giorni e che, forse, piangendo si era conquistata uno sguardo limpido, che non aveva bisogno di nascondersi con le parole. Non credeva che Lavinia pensasse di essere bella dopo quella festa, solo perché aveva chiacchierato con una che per non cedere alla disperazione se la porta addosso come un boa di struzzo. Sua cugina era troppo naïf.
Il vero affare, invece, era ammettere quanto in realtà ci si sentisse brutte: probabilmente sarebbero state entrambe molto meno sole. Ma lei non ci provava neanche. Non ne era proprio capace, ormai lo sapeva. Mica perché era orgogliosa: se fosse stata orgogliosa non avrebbe guardato in faccia così crudemente la sua stessa disperazione. Però lo faceva con un involontario contegno che non la rendeva raggiungibile.
Lei era, indubbiamente, triste; ma aveva una specie di vocazione al trionfo. Sentiva un richiamo sensualissimo dentro sé stessa che la incitava a vivere le sue sofferenze con fierezza. Forse era quell’aria di malinconica maestà che portava gli amici a considerarla principalmente come un punto di riferimento e non come una Lavinia che, invece, sapeva disfarsi con leggerezza della sua miseria.

Tornando a quella volta, era solo una volta come tante altre volte della sua vita, quindi. Sapeva già che non aveva senso arrabbiarsi, mettere un disco di Bon Iver, sentirsi sgradevole e incapace, mangiare un pacco di canestrelli, comprare un biglietto del treno per andare dai suoi genitori a riflettere nell’agio della sua cameretta con il poster di Kurt Cobain che, ormai, sospettava avesse imparato cos’era che sbagliava al posto suo. Fece comunque tutte queste cose che non avevano senso. Neanche comportarsi come se fosse stato davvero possibile declassare quel senso di solitudine esistenziale a un acciacco da ceto medio, tipo la cervicale, tanto, aveva senso. La tentazione di privare il mondo delle uniche cose che di lei sembrava apprezzare era forte ma anch’essa inutile, perché le sembrava di morire di fame a chiudersi così tanto nella propria casa e nei propri silenzi, come se smettesse davvero di esistere. Se voleva sopravvivere, doveva lasciare che il mondo che tanto si diceva di odiare le desse di nuovo da mangiare: con le feste, le telefonate, i viaggi, i concerti, le tavolate ma, soprattutto, con gli altri. Gli altri tornavano sempre. Liberarsene era impossibile. La corteggiavano con ingordigia. Insistevano senza pudore. Facevano domande. Facevano inviti. Non volevano solo una cosa.
A lei non capitava mai che le si chiedesse una cosa soltanto, forse perché a nessuno capitano mai le cose che gli verrebbero meglio. Da lei volevano tutto. Soprattutto, volevano le sue parole e poi sputare i sentimenti che c’erano dentro, come si fa con il nocciolo dei frutti. Lo facevano apposta. In quel modo, le chiedevano di tornare a dare. Senza sapere cosa sarebbe successo dopo che avrebbero preso. Lei provava a nascondersi, ci provava sempre. Cercava di individuare il lato di sé che meno potesse attirare l’attenzione altrui o suscitare qualsiasi tipo di desiderio e lo offriva, aspettandosi una ritirata che non arrivava mai.
Si potrebbe immaginare che suscitasse chissà quanta invidia. In realtà, trasudava un tale disagio che nessuno avrebbe potuto desiderare di essere al suo posto. Si era detta molte volte che non doveva scambiare le conseguenze delle sue malìe involontarie sugli altri per affetto – né per qualunque altra cosa che somigliasse a un sentimento. Ma erano troppi e troppo bravi a desiderarla. Gli altri sono dei tiranni, decidono quando esisti e in che modo.

Quando fu di ritorno dal fine settimana a casa dei suoi genitori, prima ancora di disfare la valigia iniziò a vagare per il suo appartamento, alla ricerca di tracce della presenza di lui da cancellare pazientemente. Lavò i piatti in cui avevano mangiato l’ultima volta che si erano visti e il bicchiere dal quale lui aveva bevuto, che era rimasto sul tavolino di vetro di fronte il televisore con ancora dell’acqua dentro; raccolse dal parquet due pezzetti di patatine dell’aperitivo; prese il biglietto della metro che lui aveva preso per raggiungerla e che aveva accartocciato e lasciato sul tavolo da pranzo, accanto a una bottiglia d’acqua rimasta aperta, e lo buttò nella spazzatura.
Notò il cuscino del divano rosso che lui aveva spostato sull’altro divano, quello bianco; ci aveva poggiato la testa e poi si era addormentato, mentre lei gli leggeva “Lettera al padre” di Kafka. Lo prese fra le braccia e lo agitò per togliere la forma del suo corpo, poi lo rimise al suo posto.
Infine andò in bagno, con l’intenzione di mettere in lavatrice l’asciugamano che gli aveva dato per fare la doccia.
Lo trovò appallottolato per terra, in un angolo fra il bidet e la porta d’ingresso. Si chinò per raccoglierlo e notò con sorpresa che nelle pieghe più interne era ancora umido. Lo sollevò delicatamente come fosse una specie di sindone, tenendolo fra i palmi delle mani bene aperti. Se lo portò al naso. Aveva quell’odore che una sua zia chiamava “d’acqua morta”.
Tutte le estati, la famiglia di sua madre passava le vacanze in una villa sulla spiaggia che avevano acquistato i suoi nonni. Quando lei tornava dal mare, sua zia si raccomandava che stendesse immediatamente l’asciugamano, “altrimenti poi puzza d’acqua morta!”, ripeteva.
Era quell’odore che fa l’acqua quando, invece di evaporare, impregna lentamente i tessuti marcendovi all’interno, facendo sì che questi sembrino asciutti soltanto finché non vengono toccati. Ora pensava alla sé adolescente e abbronzata, che saliva le scale del portico con l’asciugamano salato nella borsa, poche ferite, infinite fantasie, una zia con la molletta per il bucato in bocca.
Lasciò cadere la testa fra le mani inabissando il viso nelle trame di quella bizzarra reliquia e una volta nascosta lì dentro, finalmente, pianse.    

 

 

Lascia un commento